Cass., sez. VI, 11/06/2019, n. 25771, Misure di Prevenzione
CASS. PEN. SEZ. VI, SENT. N. 25771 DEL 29 MAGGIO 2019
(DEP. 11 GIUGNO 2019), RIC. P.A.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PAOLONI Giacomo – Presidente –
Dott. MOGINI Stefano – Consigliere –
Dott. CALVANESE Ersilia – Consigliere –
Dott. BASSI Alessandra – rel. Consigliere –
Dott. SILVESTRI Pietro – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
P.A., nato a (OMISSIS);
avverso il decreto del 15/11/2018 della Corte d’appello di Milano;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alessandra Bassi;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto
Procuratore generale Dott. CARDIA Delia, che ha concluso chiedendo
che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO
1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma del
decreto del Tribunale di Milano del 28 giugno 2018 appellato da P.A., ha ridotto ad anni
uno e mesi sei la durata della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di cui al
D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, art. 4, lett. i-ter), (Codice delle leggi antimafia e delle
misure di prevenzione) e modificato l’orario della permanenza in casa nelle ore serali e
notturne (dalle 7:00 alle ore 23.30). Giova precisare che P. è stato sottoposto alla misura
di prevenzione personale per avere posto in essere, per circa un anno – dall'(OMISSIS) al
(OMISSIS) -, comportamenti persecutori, sequestro di persona e violenza privata nei
confronti della ex compagna Q.S., continuando a molestarla dopo la fine della loro
relazione sentimentale nonché privandola della libertà di movimento, così cagionandole
le conseguenze sulla salute attestate dalla documentazione sanitaria e portandola a
richiedere reiteratamente l’intervento delle forze dell’ordine, da ultimo il (OMISSIS).
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2. Nell’atto a firma del difensore di fiducia, P.A. chiede l’annullamento del
provvedimento per violazione di legge penale e mancanza assoluta di motivazione in
relazione ai presupposti legittimanti l’applicazione della misura di prevenzione, con
particolare riguardo alla ritenuta attualità della pericolosità sociale ed al contenuto delle
prescrizioni imposte.
In particolare, il ricorrente lamenta che la Corte d’appello abbia omesso di considerare:
a) come la misura degli arresti domiciliari originariamente applicata al proposto sia poi
stata sostituita con quelle dell’obbligo di presentazione alla P.G. e del divieto di
avvicinamento, successivamente revocate; b) come da oltre un anno e mezzo P. non
abbia più tentato di avere alcun contatto con la persona offesa; c) come risultino
assolutamente inutili, eccessive ed incomprensibili le prescrizioni concernenti l’orario di
entrata e di uscita, in quanto prive di alcuna ragionevole giustificazione e tali da inibire
totalmente qualunque attività ludica del proposto; d) come sia altrettanto ingiustificato
il divieto di partecipare a pubbliche riunioni; e) come i dieci procedimenti nei confronti
del P. emergenti dal certificato del casellario giudiziale riguardino fatti molto risalenti
nel tempo ed illeciti in gran parte non più costituenti reato o estinti per altre cause; f)
come la pericolosità sociale vada accertata senza fare ricorso a presunzioni e come,
pertanto, le misure adottate nei confronti del ricorrente siano illegittime, in assenza della
comprovata attualità della pericolosità sociale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è fondato nei limiti e per le ragioni di seguito esposte.
2. In via preliminare, deve essere rammentato che – come hanno avuto modo di
affermare anche le Sezioni Unite di questa Corte –, nel procedimento di prevenzione, il
ricorso per cassazione sia ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto
della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4, richiamato dalla L. 31 maggio 1965, n. 575, art.
3-ter, comma 2, (nonchè dall’art. 10, comma 3, dello stesso D.Lgs. n. 159 del 2011); ne
consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi
deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta di cui all’art. 606 c.p.p.,
lett. e), potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come
violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello
dalla L. n. 1423 del 1956, art. 4 comma 9 predetto (nonché dal comma 2 dell’art. 10 dello
stesso D.Lgs. n. 159 del 2011), il caso di motivazione inesistente o meramente apparente.
(In motivazione la Corte ha ribadito che non può essere proposta come vizio di
motivazione mancante o apparente la deduzione di sottovalutazione di argomenti
difensivi che, in realtà, siano stati presi in considerazione dal giudice o comunque
risultino assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento
impugnato). (Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci e altri, Rv. 260246).
La limitazione del ricorso alla sola “violazione di legge” è stata tra l’altro riconosciuta
dalla Corte Costituzionale non irragionevole (v. sentenze n. 321 del 2004 e n. 106 del
2015), data la peculiarità del procedimento di prevenzione sia sul piano processuale che
su quello sostanziale (Sez. 6, n. 20816 del 28/02/2013, Buonocore e altri, Rv. 257007).
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3. Tanto premesso in linea generale e passando alla disamina del ricorso, ritiene il
Collegio che la Corte territoriale abbia dato conto – con argomentazioni puntuali e
coerenti – dei presupposti dell’attualità della pericolosità sociale del proposto su cui si
appunta la prima censura difensiva.
3.1. Come questo Giudice di legittimità ha già avuto modo di chiarire, il giudizio di
pericolosità necessario ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione personali
deve fondarsi, in un’ottica costituzionalmente e convenzionalmente orientata (sulla
scorta dei principi affermati nella sentenza della Corte EDU De Tommaso c. Italia), su
un’interpretazione restrittiva dei presupposti per l’applicazione ai c.d. “pericolosi
generici” e, dunque, sull’oggettiva valutazione di fatti sintomatici collegati ad elementi
certi e non su meri sospetti, significativi di un’effettiva tendenza a delinquere del
proposto (Sez. 2, n. 9517 del 07/02/2018, Baricevic e altri, Rv. 272521).
3.2. Di tale lezione ermeneutica ha fatto peraltro ineccepibile applicazione la Corte
d’appello, là dove ha poggiato la ritenuta attualità della pericolosità sociale del proposto
sulla base di obbiettive e significative emergenze dell’incartamento processuale,
evidenziando: a) come il procedimento concernente i fatti-reato si fondi su quattro
denunce-querela presentate dalla persona offesa e sulle risultanze delle relazioni di
servizio stilate in occasione dei quattro interventi della polizia giudiziaria su richiesta
della medesima, procedimento conclusosi con la sentenza di applicazione della pena del
13 dicembre 2017; b) come l’ultimo atto persecutorio coincida con la notifica
dell’ordinanza cautelare che disponeva l’obbligo di presentazione alla P.G. e il divieto di
avvicinamento la persona offesa, sicché la cessazione dei comportamenti delittuosi
costituisce il frutto, non di una spontanea resipiscenza del prevenuto, bensì
dell’applicazione del provvedimento coercitivo nei suoi confronti; c) come il giudice del
merito abbia denegato l’applicazione della sospensione condizionale al P. proprio in
considerazione del fatto che i suoi precedenti penali testimoniano la preoccupante
propensione alla violazione delle regole, confermata dalla reiterazione nel tempo delle
condotte illecite in danno dell’ex compagna.
3.3. Conclusivamente, avuto riguardo all’attenta e lineare trama motivazionale intessuta
nel provvedimento in rassegna, non v’è materia per ritenere che, in relazione a detto
presupposto applicativo della misura di prevenzione personale, il giudice d’appello sia
incorso in una violazione di legge o nella mancanza assoluta di motivazione – anche sub
specie della motivazione apparente – coltivabile col ricorso per cassazione.
4. Colgono di contro nel segno le doglianze concernenti le prescrizioni del divieto di
partecipare alle pubbliche riunioni e dell’obbligo di permanenza in casa in orario
notturno, punti in relazione ai quali risulta fondata la dedotta violazione di legge.
4.1. Occorre premettere che il D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, art. 8, dispone
testualmente, al comma 2, che “il Tribunale qualora disponga l’applicazione di una delle
misure di prevenzione” determina “le prescrizioni che la persona sottoposta a tale misura
deve osservare” e, al comma 4, che “in ogni caso, prescrive (….) di non rincasare la sera
più tardi e di non uscire più presto di una data ora e senza comprovata necessità e,
comunque senza averne data tempestiva notizia all’autorità locale di pubblica sicurezza,
(…) di non partecipare pubbliche riunioni”.
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L’enunciato normativo – segnatamente l’espressione “in ogni caso, prescrive” contenuta
nel comma 4 – sembra postulare un automatismo fra l’applicazione della misura di
prevenzione e dette limitazioni.
La giurisprudenza convenzionale – segnatamente della Corte Europea per i diritto
dell’uomo – e, a cascata, la giurisprudenza delle alte Corti nazionali – in particolare della
Corte costituzionale e di questa Corte di legittimità –, preso atto dell’obbiettiva incidenza
delle misure di prevenzione personali su libertà fondamentali dell’individuo (sia pure in
termini tali da non potersi qualificare quali sanzioni, di tal che possono trovare
applicazione nonostante l’assenza di un accertamento giurisdizionale della penale
responsabilità del destinatario), ne hanno nel tempo definito in modo più rigoroso i
presupposti applicativi, temperando la letterale obbligatorietà delle correlative
prescrizioni.
4.2. In particolare, nella decisione resa il 23 febbraio 2017 dalla Grande Camera della
Corte Europea dei Diritti dell’uomo nel caso De Tommaso c. Italia, i Giudici di
Strasburgo hanno chiarito, da un lato, come l’applicazione delle misura di prevenzione
presupponga un’attenta verifica circa la “prevedibilità” della restrizione, id est che
l’istituto abbia una “base legale” e sia ragionevolmente “conoscibile” dai consociati i quali
possano rappresentarsi in anticipo la sottoposizione a dette misure nell’ambito del
ventaglio delle possibili conseguenze del proprio agire; dall’altro lato, come le
prescrizioni che conseguono all’applicazione delle misure di prevenzione personali – in
particolar modo quelle di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” – siano formulate
in termini “estremamente vaghi e indeterminati”, si traducano in un “illimitato richiamo
all’intero ordinamento giuridico italiano” senza “alcuna chiarificazione sulle norme
specifiche la cui inosservanza dovrebbe essere considerata quale ulteriore indicazione
del pericolo per la società rappresentato dall’interessato” (p.p. 119-122) e poggino su
presupposti altrettanto indeterminati, facendo un generico rinvio “alle esigenze di difesa
sociale”, senza precisarne il contenuto (p. 121). In questa stessa pronuncia, la Corte EDU
ha censurato il fatto che la prescrizione di “non partecipare a pubbliche riunioni” non sia
delimitata sotto il profilo temporale né spaziale, di tal che la compressione della libertà
fondamentale di circolazione del cittadino finisce per essere rimessa alla sola
discrezionalità del giudice (p. 123).
5. Le linee guida fissate dalla Grande Camera della Corte EDU hanno trovato eco nella
pronuncia nella quale le Sezioni Unite di questa Corte hanno escluso che la penale
responsabilità per il reato previsto dal D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 75, comma 2, –
conseguente dalla violazione delle prescrizioni della sorveglianza speciale con obbligo o
divieto di soggiorno – possa discendere dall’inosservanza delle prescrizioni generiche di
“vivere onestamente” e di “rispettare le leggi”, potendo il contenuto precettivo della
fattispecie essere integrato esclusivamente dalle prescrizioni c.d. specifiche (Sez. U, n.
40076 del 27/04/2017, Paternò, Rv. 270496).
5.1. Dopo avere ripercorso i principi affermati in materia dal Giudice delle Leggi circa la
conformità alla Carta Fondamentale e, nello specifico, al principio di tassatività e
determinatezza delle prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi” (sent. n.
27 del 1959; ord. n. 354 del 2003; sent. n. 282 del 2010) e della coerente giurisprudenza
della Cassazione (Sez. 1, n. 47766 del 06/11/2008, Lungari, Rv. 242748; Sez. 1, n. 8412 del
5
27/01/2009, Iuosio, Rv. 242975; Sez. 7, n. 11217 del 29/01/2014, Polimeni, Rv. 264477), il
più ampio consesso di questa Corte si è confrontato con l’approdo della Corte di
Strasburgo e sui rilievi fortemente critici sulla “qualità” della L. n. 1423 del 1956 e quindi
del D.Lgs. n. 159 del 2011, nella misura in cui questo recepisce i contenuti fondamentali
della disciplina originaria, quanto alla non conformità della misura di prevenzione della
sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno agli artt. 5, 6 e 13 CEDU, nonché all’art. 2
Prot. 4 CEDU là dove tutela la libertà di circolazione e di movimento). Richiamato anche
l’insegnamento di una precedente decisione nella medesima composizione – secondo il
quale il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale presuppone
la verifica che la violazione della prescrizione sia strumentale ad una sorta di
“vanificazione” della misura cui si riferisce sicché non tutte le “inottemperanze” del
sorvegliato speciale possono giustificare la maggiore severità repressiva, ma, in base al
principio di offensività, solo quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono
indice di una persistente e ulteriore pericolosità (Sez. U, n. 32923 del 29/05/2014,
Sinigaglia, Rv. 260019, in linea con i principi affermati dalla Corte Cost. nella sentenza n.
27 del 1959) –, le Sezioni Unite, chiamate ad una rilettura del diritto interno in aderenza
alla CEDU e subordinata “al prioritario compito di adottare una lettura
costituzionalmente conforme” (Corte Cost., sentenze n. 349 e n. 348 del 2007), rilevata
l’estrema vaghezza e genericità del contenuto delle prescrizioni imposte all’interessato
di honeste vivere, ne hanno tratto la conclusione – in ossequio ad un’interpretazione
della norma incriminatrice convenzionalmente orientata – che il delitto non possa mai
conseguire dalla violazione di un precetto siffatto.
6. Nel medesimo solco, si inserisce la successiva pronuncia resa dalla Prima Sezione di
questa Suprema Corte con riguardo allo specifico tema del divieto del sorvegliato
speciale di partecipare a pubbliche riunioni.
6.1. Proprio prendendo le mosse dai rilievi della Grande Camera della Corte EDU nella
sentenza del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia – questa Corte ha chiarito che, in
base ad un’interpretazione convenzionalmente orientata del quadro normativo interno
alla luce dei principi fissati dai Giudici di Strasburgo, la prescrizione di non partecipare
a pubbliche riunioni deve essere sorretta da un’esplicita illustrazione delle ragioni per le
quali, nel singolo caso concreto, essa si renda necessaria in funzione del controllo della
pericolosità sociale del prevenuto; ciò al fine di evitare compressioni generalizzate di
una libertà fondamentale, oggetto di presidio costituzionale (In applicazione di tale
principio, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata che aveva ritenuto
la responsabilità dell’imputato per il reato di cui alla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 9,
comma 2, in quanto recatosi ad assistere a comizi elettorali nonostante il divieto di
partecipare a pubbliche riunioni contenuto nel decreto applicativo della misura). (Sez. 1,
n. 49731 del 06/06/2018, Sassano, Rv. 274456).
Come si è perspicuamente osservato nell’attenta motivazione della decisione, le
prescrizioni previste dalla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 5, comma 3, (previsione in
tutto sovrapponibile a quelle di cui al D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, art. 8, comma 4),
sono strumentalmente necessarie a soddisfare le “esigenze di tutela sociale”, tenuto conto
della pericolosità specifica del sorvegliato, accertata nel processo di prevenzione, nonché
– ovviamente nel rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti. Dopo avere dato conto
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della pregressa giurisprudenza in ordine alla conformità alla Carta Fondamentale –
segnatamente alle libertà presidiate dagli artt. 21 e 49 Cost. ed al principio di legalità di
cui all’art. 25 Cost. – del divieto di partecipare a pubbliche riunioni, stante la previsione
in termini assolutamente tassativi senza margini di discrezionalità per il giudice (che
deve applicare la prescrizione “in ogni caso”, ossia a tutti i sorvegliati speciali) (Sez. 1, n.
44846 del 05/11/2008, Solferino, Rv. 242275, escludendo ogni profilo di frizione
costituzionale), la Prima Sezione penale ha preso atto della necessità di rivedere tale
impostazione ermeneutica proprio alla luce della recente posizione espressa dalla
Grande Camera della Corte EDU nel caso De Tommaso, là dove ha appunto
stigmatizzato il fatto che la legge nazionale non indichi alcun limite temporale o spaziale
alla restrizione di una libertà fondamentale che viene interamente lasciata alla
discrezionalità del giudice, rimettendo all’apprezzamento giurisdizionale la definizione
dei limiti, senza alcuna chiara indicazione dell’estensione e del le modalità di esercizio
di tale discrezionalità (cfr. punto 123 della sentenza De Tommaso). Tanto premesso, la
Prima Sezione ha precisato che, stante il carattere eccezionale delle limitazioni di libertà
costituzionalmente presidiate e la necessità di seguire da parte del giudice una lettura
convenzionalmente conforme del quadro normativo interno di riferimento (come di
recente riaffermato anche dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 40076 del 27/04/2017, Rv.
270496 in materia di reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza
speciale), perché la misura di prevenzione personale non si risolva in una compressione
generalizzata di libertà fondamentali (quali la libertà di circolazione e di esercizio di
diritti politici e democratici, quali quelli connessi alla partecipazione a comizi elettorali)
i contatti da vietare tra soggetti siano solo quelli che incrementano il rischio di
pericolosità sociale del proposto e che si giustificano, nel singolo caso concreto, in
ragione di specifiche esigenze special-preventive.
7. A coronamento del filone ermeneutico sopra tratteggiato è di recente intervenuto
anche il Giudice delle leggi con la sentenza del 20 novembre 2018 24 gennaio 2019, n. 24.
7.1. La Corte costituzionale ha preliminarmente chiarito che le misure di prevenzione
personali, pur postulando la sussistenza di elementi sintomatici di pregresse attività
criminose da parte del soggetto, non hanno carattere sanzionatorio-punitivo, sì da
chiamare in causa necessariamente le garanzie che la CEDU, e la stessa Costituzione,
sanciscono per la materia penale. In particolare, ha affermato che: “Imperniate come sono
su un giudizio di persistente pericolosità del soggetto, le misure di prevenzione
personale hanno una chiara finalità preventiva anziché punitiva, mirando a limitare la
libertà di movimento del loro destinatario per impedirgli di commettere ulteriori reati,
o quanto meno per rendergli più difficoltosa la loro realizzazione, consentendo al tempo
stesso all’autorità di pubblica sicurezza di esercitare un più efficace controllo sulle
possibili iniziative criminose del soggetto. L’indubbia dimensione afflittiva delle misure
stesse non è, in quest’ottica, che una conseguenza collaterale di misure il cui scopo
essenziale è il controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato:
non già la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato”.
Rilevato che la natura sanzionatoria delle misure di prevenzione personali è stata esclusa
anche dalla Corte EDU nella recente sentenza nel caso De Tommaso c. Italia e dalla stessa
Corte costituzionale, i Giudici della Consulta hanno nondimeno affermato – in linea con
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le indicazioni della Corte EDU – che le misure di prevenzione, in quanto limitative della
libertà di circolazione, sancita dall’art. 2 Prot. n. 4 CEDU “sono legittime in quanto
sussistano le condizioni previste dal paragrafo 3 della norma convenzionale in questione
(in particolare: idonea base legale, finalità legittima, “necessità in una società
democratica” della limitazione in rapporto agli obiettivi perseguiti). Ha poi rammentato
come, in precedenti arresti in materia, la Corte costituzionale abbia sempre riconosciuto
che le misure di prevenzione personale implicano una restrizione della libertà personale
– là dove comportano, ad esempio, l’obbligo di fissare la propria dimora e di non
allontanarsene senza preventivo avviso all’autorità, nonché il divieto di uscire o
rincasare al di fuori di certi orari – e che “in tanto possono considerarsi legittime, in
quanto rispettino i requisiti cui l’art. 13 Cost. subordina la liceità di ogni restrizione alla
libertà personale, tra i quali vanno in particolare sottolineate la riserva assoluta di legge
(rinforzata, stante l’esigenza di predeterminazione legale dei “casi e modi” della
restrizione) e la riserva di giurisdizione”, La Corte costituzionale ha dunque aggiunto
che “la riconduzione delle misure in parola all’alveo dell’art. 13 Cost. comporta, infatti,
che alle garanzie (richieste anche nel quadro convenzionale) a) di una idonea base legale
delle misure in questione e b) della necessaria proporzionalità della misura rispetto ai
legittimi obiettivi di prevenzione dei reati (proporzionalità che è requisito di sistema
nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile
di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo), debba affiancarsi l’ulteriore garanzia
c) della riserva di giurisdizione, non richiesta in sede Europea per misure limitative di
quella che la Corte EDU considera come mera libertà di circolazione, ricondotta in
quanto tale al quadro garantistico dell’art. 2 Prot. n. 4 CEDU”.
8. Tirando le fila delle considerazioni che precedono, riaffermato il principio secondo il
quale il giudice nazionale è tenuto ad attribuire alle disposizioni interne un significato
quanto più aderente alla CEDU e alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo a
condizione che non si riveli del tutto eccentrico rispetto alla lettera della legge (Corte
costituzionale, sentenze nn. 219 del 2008, 239 del 2009, 1 del 2013 e 49 del 2015) e fatti
propri i sopra delineati e condivisibili approdi ermeneutici delle alte Corti nazionali e
sovranazionale, deve concludersi che, a discapito del tenore del D.Lgs. n. 159 del 2011,
art. 8, comma 4, e dell’apparente automatismo dell’applicazione delle prescrizioni che
sembrerebbe discendere dalla littera legis, la lettura costituzionalmente e
convenzionalmente orientata della norma non possa non condurre a subordinare
l’adozione delle restrizioni a specifiche e verificate condizioni.
In particolare, avendo riguardo al principio di necessaria proporzionalità della
restrizione rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati, deve ritenersi che, in
caso di applicazione della misura di prevenzione personale, ferma la necessaria verifica
circa l’attuale pericolosità sociale del proposto, il giudice possa disporre il divieto di
partecipare a pubbliche riunioni a condizione: a) che giustifichi la prescrizione in ragione
della specifica (ed attuale) pericolosità sociale del destinatario in considerazione di ben
evidenziate esigenze di tutela sociale e di sorveglianza del proposto; b) che definisca
esattamente i contenuti della restrizione, precisando a quali “pubbliche riunioni” essa
trovi applicazione, in connessione con le rappresentate esigenze di difesa sociale ed in
ragione di esse. Ciò al fine di garantire che la restrizione della libertà di circolazione
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convenzionalmente e costituzionalmente presidiata risponda ad un’effettiva necessità di
sorveglianza e non risulti illegittimamente – nonché inutilmente – afflittiva.
8.2. Analoghe considerazioni valgono anche con riguardo all’obbligo del proposto di
permanenza nell’abitazione in orario notturno, non essendo revocabile in dubbio che
esso si risolva in una compressione della libertà di circolazione dell’individuo. Ne
discende che – al pari del divieto di partecipare a pubbliche riunioni – detto obbligo
debba motivatamente correlarsi alle specificità della ritenuta pericolosità sociale del
proposto (e dunque della peculiare tipologia di condotte criminose rispetto alle quali vi
sia un rischio di reiterazione) e si renda pertanto necessaria, nel singolo caso concreto, in
funzione delle obbiettive esigenze di controllo del proposto.
9. Conclusivamente, il decreto impugnato deve essere annullato con rinvio perché la
Corte d’appello precisi quali siano le ragioni che giustificano nel caso concreto
l’applicazione delle prescrizioni del divieto di partecipare a pubbliche riunioni e
dell’obbligo di permanere a casa in orario notturno, avendo specifico riguardo alla
pericolosità sociale ed alle esigenze di controllo di P.A., sottoposto a procedimento
penale per il delitto di atti persecutori.
P.Q.M.
annulla il decreto impugnato limitatamente alla determinazione delle prescrizioni
D.Lgs. n. 159 del 2011, ex art. 8 e rinvia per nuova deliberazione sul punto alla Corte
d’Appello di Milano.
Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 29 maggio 2019.
Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2019